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giovedì 28 marzo 2013

Architeuthis: uno, nessuno o otto?

Pochi animali hanno sollecitato l'immaginario collettivo quanto il calamaro gigante. L'idea che un Mollusca (teoricamente) lungo fino a diciotto metri possa nuotare negli abissi è qualcosa che da una parte non può che suscitare meraviglia, dall'altra un profondo senso di spavento. Si parla d'altro canto di un animale predatore enorme, tentacolare e che per giunta vive nell'ultimo luogo ancora pressoché inesplorato del mondo, un luogo di per sé ostile all'uomo vista l'assenza di aria, il freddo e le pressioni elevatissime, ovverosia l'ambiente delle acque profonde. In sostanza, un vero alieno per gli standard umani, e per di più lungo come un autobus. Se a questo poi si aggiunge la figura del calamaro gigante  come un mostro pieno di tentacoli e mangia-uomini (nomea che, in misura minore, condivide con la fantomatica “piovra gigante”) presente nell'immaginario collettivo (e non poche opere di fantasia hanno contribuito a ciò, anche recenti), allora si capisce bene come sia piuttosto difficile rimanere insensibili o perlomeno distaccati dinanzi a questo animale.
Quest'aurea mitologica continua a circondare questo elusivo abitante degli abissi grazie alle difficoltà per filmarlo ed osservarlo nel suo ambiente naturale, e non solo per le difficoltà oggettive nel raggiungerlo quanto anche per la sua natura: si tratta infatti di una creatura infastidita da forti luci e dal rumore di motori e di simili oggetti, tendendo quindi a rifuggire batiscafi, sottomarini o ROV (Remote Operative Vehicle, un robot subacqueo comandato a distanza). Tuttavia, nonostante le difficoltà a gennaio di quest'anno sono state rese pubbliche le prime immagini di un Architeuthis vivente.




Il primo filmato di un Architeuthis nel suo ambiente naturale.


Le riprese sono state effettuate al largo delle isole dell'arcipelago di Ogasawara, in Giappone, a 700 metri di profondità. L'animale, attirato con un esemplare di Thysanoteuthis rhombus Troschel 1857 (un altro grande calamaro di acque profonde presente anche nel Mediterraneo, che può arrivare al metro di lunghezza del mantello per trenta chilogrammi di peso)  usato come esca, era lungo all'incirca 4 metri (braccia incluse), tuttavia si può notare anche l'assenza dei due tentacoli raptatori, molto più lunghi rispetto alle altre appendici. Molto probabilmente l'animale ha perso le proprie estremità in uno scontro contro un capodoglio o uno squalo, anche se non è da escludere il cannibalismo: infatti, è stato osservato che si tratta di Cephalopoda probabilmente dediti a quest'ultima attività sugli esemplari più piccoli. L'esemplare di Thysanoteuthis è  stato scelto come esca dopo che gli studi sul contenuto stomacale di alcuni esemplari di Architeuthis hanno appurato che si nutrono prevalentemente di altri calamari e pesci abissali di taglia medio-grande; inoltre, sono state usate luci per attirarlo con una banda spettrale simili a quelle della bioluminescenza prodotta da molte specie abissali.


Una delle fotografie di Architeuthis rese pubbliche (da http://news.nationalgeographic.com/news/2005/09/photogalleries/giant_squid/)

Anche le precedenti foto del 2005 (scattate sempre in Giappone alla profondità di 900 metri), immortalanti un esemplare di 8 metri di lunghezza totale, sono state utili per comprendere un altro importante aspetto nella vita degli Architeutidae che era sempre stato soggetto a ipotesi: a causa del basso rapporto tra la superficie delle pinne e la massa del corpo e del, presumibilmente, piuttosto basso metabolismo (si parla di un animale tendenzialmente ectotermo perennemente immerso in acqua a temperatura compresa tra 10 e 4 gradi) era stato ipotizzato che il calamaro gigante passasse la maggior parte del tempo fluttuante e statico, con i lunghi tentacoli protesi avanti a sé, aspettando che qualcosa gli sfiorasse o passasse abbastanza vicino da essere percepito dall'animale (e in certi casi anche visto, dato che si parla dell'animale con gli occhi più grandi del mondo, con un diametro di 30 centimetri), per poi prodursi in un breve scatto e catturare la preda sempre con le appendici più lunghe, in modo non dissimile da altri grandi calamari abissali (come Magnapinna sp.). Adesso sappiamo invece che Architeuthis è un predatore attivo e natante.

Le origini mitologiche (nessuno)

Eppure, per molto tempo il calamaro gigante è stato una creatura mitologica. Il leggendario kraken (che ha avuto anche recenti comparse cinematografiche), l'enorme mostro marino capace di affondare intere navi, inizialmente chiamato haufgufa e comparso nel XIII secolo nella mitologia scandinava, è chiaramente ispirato a questo animale. Inoltre si deve considerare che, in epoca storica, gli  episodi di spiaggiamento più eclatanti hanno interessato le basse latitudini e, pertanto, non è fuori da ogni logica considerare che ci possano essere stati eventi come quello che interessò Terranova in un passato più remoto. Eppure, fu solo con l'intervento della corvetta francese Alecton (che riuscì a recuperare parte del mantello di un esemplare ancora vivo in prossimità della superficie, seppure probabilmente moribondo) che nei 1861 la scienza cominciò a studiare realmente il genere Architeuthis. L'unico lavoro scientifico fatto sul calamaro gigante fino ad allora era uno studio di Steenstrup del 1857, che istituiva il genere Architeuthis con la specie Architeuthis dux. I motivi sono molteplici: questo animale è di difficile osservazione ancor oggi, vive in un ambiente inospitale, gli spiaggiamenti non sono particolarmente frequenti ed interessano spesso regioni all'epoca poco abitate, e nell'antichità era stato descritto come una qualche creatura leggendaria (vedasi il kraken o il “monaco di mare” descritto da Cristiano III di Danimarca nel XVI secolo). Questo conferiva alla creatura una patina più o meno consistente di leggendarietà non favorendo, purtroppo, lo studio scientifico. La fortuna tuttavia arrise agli studiosi quando avvenne un'ondata di spiaggiamenti a Terranova tra il 1870 e il 1880, che portarono decine di calamari morti o moribondi ad arenarsi su quelle coste e che, in misura minore, coinvolsero alla fine dell'800 anche la Nuova Zelanda. I motivi di questi avvenimenti sono sconosciuti, ma sembra si ripetano circa ogni 90 anni, come dimostra la nuova ondata di spiaggiamenti (seppure meno consistente) tra il 1964 e il 1967. E' plausibile ritenere che ciò avverrà di nuovo tra il 2050 e il 2060. Resta il fatto che la prima descrizione scientifica di Architeuthis dux risale al 1857, dopo centinaia di anni di miti e leggende attorno al kraken. Ciò che Steenstrup non poteva sapere ai tempi della pubblicazione del suo lavoro era il caos tassonomico che si sarebbe sviluppato attorno al grande calamaro nei decenni a venire.

La suddivisione tradizionale (otto)

La gran parte degli esemplari oggetto di studi sono resti poveramente conservati, quali resti rigurgitati dai capodogli (Physeter macrocephalus Linnaeus, 1758) o estratti dallo stomaco di questi animali. Anche gli esemplari spiaggiati, per quanto di capitale importanza per la comprensione della fisiologia e della distribuzione di questo animale, spesso sono incompleti e praticamente sempre in fasi più o meno avanzate di decomposizione. Chiaramente questi esemplari spesso galleggiano per giorni, se non settimane, in balia delle correnti fino allo spiaggiamento, e nel frattempo parti del corpo si distaccano naturalmente o sono soggetti dell'attacco di altri animali marini (squali e Cetacea in primis). Inoltre, possono passare ore o giorni prima di essere individuati sulle coste, e di conseguenza possono subire anche l'azione meccanica delle onde contro il fondale e l'attacco di  animali terrestri. Come se non bastasse, spesso sotto l'effetto degli agenti atmosferici avviene l'indurimento del corpo e la contrazione dei tentacoli post-mortem, alterando in modo sensibile la morfologia del calamaro. Di conseguenza, praticamente tutti gli esemplari di calamari giganti nelle collezioni sono più o meno putrefatti e più o meno alterati, spesso in modo notevole. Se a questo si aggiunge la notevole difficoltà di reperire materiale fresco (esemplari pescati e congelati immediatamente) e di acquisire riprese (fotografiche o filmiche) di esemplari vivi si può ben capire il caos generale che ha trionfato per oltre un secolo nella tassonomia del genere Architeuthis. Negli anni, infatti, sono state descritte sempre più specie di calamari giganti, che alla fine sono arrivate ad otto:

Architeuthis dux Steenstrup, 1857
Architeuthis hartingii Verrill, 1875
Architeuthis japonica Pfeffer, 1912
Architeuthis kirkii Robson, 1887
Architeuthis martensi (Hilgendorf, 1880)
Architeuthis physeteris (Joubin, 1900)
Architeuthis sanctipauli (Velain, 1877)
Architeuthis stockii (Kirk, 1882)

In realtà, a parte Architeuthis dux, A. sanctipauli e A. martensi i resti ritrovati erano così frammentari  che la maggior parte degli specialisti era concorde nell'esistenza di solo queste tre specie. Tuttavia, come è comprensibile, tralasciando le specie descritte solo in base di resti incompleti e, pertanto, di difficile attribuzione, anche le diversità tra le tre specie descritte su esemplari spiaggiati erano così scarse, o così enormi, da generare una confusione tassonomica virulenta e totale. La domanda chiave era: quante sono le specie di Architeuthis? Otto, tre o un'aurea mediocritas? O magari, come sostenevano alcuni, una sola specie cosmopolita? Ora pare che la genetica abbia confermato quest'ultima ipotesi.

L'analisi genetica (uno)

In uno studio pubblicato su “Procedings of Royal Society B” (vedi bibliografia), sembra che l'arcano sia stato finalmente svelato. L'analisi del DNA mitocondriale effettuato su quarantatré campioni di tessuto provenienti da tutto il globo (e, per ovvi motivi, prevalentemente da carcasse in decomposizione) rivela non solo che esiste una sola specie, Architeuthis dux, ma che addirittura presenta una scarsa variabilità genetica: in soldoni, facendo i paragoni con altri undici animali marini pelagici (incluso il calamaro di Humboldt, Dosidicus gigas D'Orbigny, 1835), l'unico altro animale con una “peggiore” varibilità genetica risulta essere lo squalo elefante (Cetorhinus maximus Gunnerus, 1765). Questo non significa che tutti i calamari giganti del globo siano strettamente imparentati, non più di quanto io sia strettamente imparentato con un altro europeo; tuttavia, rimane un fattore molto singolare e spiegabile con il fatto che le larve, viventi a differenza degli adulti a basse profondità, vengono trascinate dalle correnti finché non raggiungono una certa taglia; dopodiché, si inabissano e si spostano poco allo stadio adulto, riproducendosi in loco. A loro volta, le larve così prodotte salgono a profondità minori lungo la colonna d'acqua e vengono trascinate via dalle correnti ed il ciclo si ripete a svariate decine (se non centinaia o persino migliaia) di chilometri di distanza, vanificando eventuali fenomeni di isolamento. Un'altra possibile spiegazione è che Architeuthis dux sia una specie originatasi in tempi molto recenti dopo aver attraversato un “collo di bottiglia evolutivo” (ovverosia dopo che la popolazione progenitrice si è ridotta ad uno scarso numero di esemplari, da cui si sono originati tutti i calamari giganti odierni).
Tuttavia, è presto per cantare vittoria. Se la tesi della specie singola è molto plausibile, ciò non toglie che potrebbe rivelarsi scorretta. Infatti, gli esemplari delle collezioni storiche spesso sono stati conservati in formaldeide che, come è noto, distrugge le strutture genetiche rendendo impossibile l'analisi del DNA, mitocondriale o meno. Pertanto se è lecito ritenere che, sulla base dei campioni esaminati, esista una sola specie cosmopolita di Architeuthis, magari nelle profondità marine si celano esemplari di un'altra (altre?) specie di calamaro gigante appartenente allo stesso genere. In effetti, l'affidarsi solo ed esclusivamente alle tecniche di analisi genetica può rivelarsi un boomerang. Chiariamoci, non voglio assolutamente invitare a diffidare della validità di questi esami, anzi; tuttavia, come per la statistica, si tratta di strumenti che forniscono i risultati in base a ciò che viene fornito loro. Risultati certamente attendibili, ma infatti la questione non è se questi siano veri o falsi; la questione è se i dati di partenza fossero realmente omnicomprensivi e rappresentativi. Magari in questo momento stanno marinando nella formaldeide di qualche collezione museale pezzi di un Architeuthis di un'altra specie, o magari no; solo il tempo e l'affinarsi dei mezzi di rilevamento di questi organismi abissali potrà dissipare ogni dubbio. E la questione se esista una sola, tre o otto specie di Architeuthis è solo una di quelle che circondano questi animali, dato che ce ne sono un'infinità che ancora non hanno ottenuto risposta. Per esempio, esiste un periodo riproduttivo? Se sì, quale? Quante uova vengono prodotte, e quali sono i tempi di schiusa? Come fanno a riconoscersi i partner nel buio degli abissi? Sono realmente cannibali o si trattava di casi di autofagia? Quando si sono originati? Quali sono le relazioni trofiche con gli altri grandi Cephalopoda che intersecano il loro areale (come Mesonychoteuthis hamiltoni Robson, 1925)? Compiono migrazioni orizzontali nella colonna d'acqua durante la notte verso la superficie, come fanno molti altri organismi di profondità? Qual'è l'aspettativa di vita media? Queste e molte altre domande ancora oggi circondano questo elusivo abitante degli abissi, a cui spero verrà data risposta nei decenni a venire.

BIBLIOGRAFIA
Bolstadt & O'Shea, “Gut contents of a giant squid Architeuthis dux (Cephalopoda: Oegopsida) from New Zealand waters”, New Zealand Journal of Zoology, volume 31,  pag. 15-21, 2004
Winkemann et. al., “Mitochondrial genome diversity and population structure of the giant squid Architeuthis: genetics sheds new light on one of the most enigmatic marine species”, Procedings of the Royal Society B, 180(1759), 2013
Kubodera & Mori, “First-ever observation of a live giant squid in the wild”, Procedings of the Royal Society B, 272(1581), 2005
Aldrich, F.A. & E.L. Brown, “The Giant Squid in Newfoundland.”, The Newfoundland Quarterly Vol. LXV No. 3. pag. 4–8, 1967
Ellis, “Mostri del Mare”, Piemme, 2000

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