Auguro buona Pasqua a tutti i lettori del blog, ma a modo mio: dato che il blog si chiama Arthropoda, al posto dell'immagine del tradizionale uovo pasquale mi sembra più appropriata la fotografia delle uova di uno dei nostri amati invertebrati con l'esoscheletro articolato. Pertanto, ecco una foto delle uova di Limulus polyphemus Linnaeus, 1758. Auguri a tutti!
L'Italia è un Paese che continua a
regalare fossili meravigliosi. Magari non saranno esaltanti per il
grande pubblico come i resti di un dinosauro o di un simile grande
animale, ma sono interessantissimi dal punto di vista scientifico e, perché no, anche molto intriganti dal punto di vista estetico. Friularachne rigoi
Dalla Vecchia & Selden, 2013 è uno di questi, e non solo perché
è ben conservato ma anche perché è il secondo Mygalomorpha (che include, tra gli altri, anche i grandi ragni della famiglia Theraphosidae, le famose migali) più antico
del mondo. Questo Arachnida è inoltre il più antico membro della superfamiglia Atypoidea mai ritrovato, dato che fino ad ora la specie più arcaica appartenente a questo gruppo, Ambiortiphagus ponomarenkoi Eskov & Zoenstein, 1990, risaliva al Cretaceo inferiore (circa 110 milioni di anni fa), retrodatando di fattol'origine di questa superfamiglia di almeno un centinaio di milioni di anni.
Il ragno, di piccole dimensioni (si tratta di un maschio adulto di 3,48 mm. di lunghezza), è stato
ritrovato infatti in rocce del Norico (Triassico superiore, molto
probabilmente tra 210 e 215 milioni di anni fa circa), qualificandolo
come uno degli Araneae appartenente ad un infraordine moderno più
arcaici mai scoperti; solo Rosamygale grauvogeli Selden & Gall,
1992 è infatti un Mygalomorpha più antico, risalendo all'Anisiano (Triassico medio, circa tra 242 e 247 milioni di anni fa). La superfamiglia Atypoidea, il gruppo di
Mygalomorpha a cui appartiene Friularachne, presenta due famiglie
attualmente esistenti. Addirittura un genere, Atypus, vive in Italia ancora oggi. Questo ragno viveva in un ambiente costiero, ed i
suoi resti sono stati infatti ritrovati in ambiente marino,
trascinato lì probabilmente da una tempesta. Il Friuli dell'epoca era infatti molto diverso da quello attuale: un arcipelago di isole tropicali in un mare poco profondo, con il fondale periodicamente soggetto a fenomeni di anossia (assenza di ossigeno). Quest'ultimo fattore rendeva poco ospitale quelle acque alla vita, ma è anche ciò che ha consentito l'ottima fossilizzazione di Friularachne, ritardandone molto la decomposizione.
Gli Atypoidea
moderni vivono all'interno di tubi di seta che possono essere parzialmente o totalmente emersi dal terreno o interrati, usando la parte terminale per catturare la preda. A seconda dei casi, la parte terminale viene usata per percepire il passaggio di potenziali prede o è costituita da una porta-trappola, che viene richiusa bruscamente quando una preda cade nel tubo o vi è trascinata. Non è insensato ritenere che anche Friularachne vivesse
in modo simile, e questo è ancora più sorprendente se si considera
che è un ragno del Triassico.
BIBLIOGRAFIA
Dalla Vecchia &
Selden, “A Triassic spider from Italy”, Acta Palaeontologica
Polonica 53, 2013
Selden & Gall, "A Triassic mygalomorph spider from the northern Vosges, France", Palaeontology 35, pag. 211-235, 1992
Pochi animali hanno sollecitato
l'immaginario collettivo quanto il calamaro gigante. L'idea che un
Mollusca (teoricamente) lungo fino a diciotto metri possa nuotare
negli abissi è qualcosa che da una parte non può che suscitare
meraviglia, dall'altra un profondo senso di spavento. Si parla d'altro canto di
un animale predatore enorme, tentacolare e che per giunta vive
nell'ultimo luogo ancora pressoché inesplorato del mondo, un luogo
di per sé ostile all'uomo vista l'assenza di aria, il freddo e le
pressioni elevatissime, ovverosia l'ambiente delle acque profonde. In sostanza, un vero alieno per gli standard umani, e per di più lungo come un autobus. Se
a questo poi si aggiunge la figura del calamaro gigante come un mostro pieno di tentacoli e mangia-uomini (nomea che, in misura minore, condivide con la fantomatica “piovra gigante”) presente
nell'immaginario collettivo (e non poche opere di fantasia hanno
contribuito a ciò, anche recenti), allora si capisce bene come sia piuttosto difficile
rimanere insensibili o perlomeno distaccati dinanzi a questo animale.
Quest'aurea mitologica continua a circondare questo elusivo abitante degli abissi grazie alle
difficoltà per filmarlo ed osservarlo nel suo ambiente naturale, e
non solo per le difficoltà oggettive nel raggiungerlo quanto anche per la sua natura:
si tratta infatti di una creatura infastidita da forti luci e dal rumore di
motori e di simili oggetti, tendendo quindi a rifuggire batiscafi, sottomarini o ROV (Remote Operative Vehicle, un robot subacqueo comandato a distanza). Tuttavia, nonostante le difficoltà a
gennaio di quest'anno sono state rese pubbliche le prime immagini di un
Architeuthis vivente.
Il primo filmato di un Architeuthis nel suo ambiente naturale.
Le riprese sono state effettuate al
largo delle isole dell'arcipelago di Ogasawara, in Giappone, a 700
metri di profondità. L'animale, attirato con un esemplare di Thysanoteuthis
rhombus Troschel 1857 (un altro grande calamaro di acque profonde presente anche nel
Mediterraneo, che può arrivare al metro di lunghezza del mantello
per trenta chilogrammi di peso) usato come esca, era lungo all'incirca 4 metri (braccia incluse), tuttavia si può notare anche
l'assenza dei due tentacoli raptatori, molto più lunghi rispetto
alle altre appendici. Molto probabilmente l'animale ha perso le
proprie estremità in uno scontro contro un capodoglio o uno squalo,
anche se non è da escludere il cannibalismo: infatti, è stato
osservato che si tratta di Cephalopoda probabilmente dediti a
quest'ultima attività sugli esemplari più piccoli. L'esemplare di Thysanoteuthis è stato scelto come esca dopo che gli studi sul contenuto stomacale di alcuni
esemplari di Architeuthis hanno appurato che si nutrono prevalentemente di altri calamari e pesci abissali di taglia
medio-grande; inoltre, sono state usate luci per attirarlo con una banda spettrale simili a quelle della bioluminescenza prodotta da molte specie
abissali.
Anche le precedenti foto del 2005 (scattate sempre in Giappone alla profondità di 900 metri),
immortalanti un esemplare di 8 metri di lunghezza totale, sono state utili per
comprendere un altro importante aspetto nella vita degli
Architeutidae che era sempre stato soggetto a ipotesi: a causa del basso rapporto tra la superficie delle
pinne e la massa del corpo e del, presumibilmente, piuttosto basso metabolismo
(si parla di un animale tendenzialmente ectotermo perennemente immerso in acqua a
temperatura compresa tra 10 e 4 gradi) era stato ipotizzato che il
calamaro gigante passasse la maggior parte del tempo fluttuante e
statico, con i lunghi tentacoli protesi avanti a sé, aspettando che
qualcosa gli sfiorasse o passasse abbastanza vicino da essere
percepito dall'animale (e in certi casi anche visto, dato che si
parla dell'animale con gli occhi più grandi del mondo, con un
diametro di 30 centimetri), per poi prodursi in un breve scatto e
catturare la preda sempre con le appendici più lunghe, in modo non
dissimile da altri grandi calamari abissali (come Magnapinna sp.).
Adesso sappiamo invece che Architeuthis è un predatore attivo e
natante.
Le origini mitologiche (nessuno)
Eppure, per molto tempo il calamaro
gigante è stato una creatura mitologica. Il leggendario kraken (che
ha avuto anche recenti comparse cinematografiche), l'enorme mostro
marino capace di affondare intere navi, inizialmente
chiamato haufgufa e comparso nel XIII secolo nella mitologia scandinava, è chiaramente ispirato
a questo animale. Inoltre si deve considerare che, in epoca storica,
gli episodi di spiaggiamento più eclatanti hanno interessato le basse
latitudini e, pertanto, non è fuori da ogni logica considerare che
ci possano essere stati eventi come quello che interessò Terranova in un passato più remoto. Eppure, fu solo con l'intervento della
corvetta francese Alecton (che riuscì a recuperare parte del
mantello di un esemplare ancora vivo in prossimità della superficie,
seppure probabilmente moribondo) che nei 1861 la scienza cominciò a
studiare realmente il genere Architeuthis. L'unico lavoro scientifico fatto sul calamaro gigante fino ad allora era uno studio di Steenstrup del 1857, che istituiva il genere Architeuthis con la specie Architeuthis dux. I motivi sono molteplici:
questo animale è di difficile osservazione ancor oggi, vive in un
ambiente inospitale, gli spiaggiamenti non sono particolarmente
frequenti ed interessano spesso regioni all'epoca poco abitate, e
nell'antichità era stato descritto come una qualche creatura leggendaria (vedasi il kraken o il
“monaco di mare” descritto da Cristiano III di Danimarca nel XVI
secolo). Questo conferiva alla creatura una patina più o meno consistente di leggendarietà non favorendo, purtroppo, lo studio scientifico. La fortuna tuttavia arrise agli studiosi quando avvenne un'ondata di spiaggiamenti a Terranova tra il 1870 e il 1880, che portarono decine di calamari morti o moribondi ad arenarsi su quelle coste e che, in misura minore, coinvolsero alla fine
dell'800 anche la Nuova Zelanda. I motivi di questi avvenimenti sono
sconosciuti, ma sembra si ripetano circa ogni 90 anni, come dimostra la nuova ondata di spiaggiamenti (seppure meno consistente) tra il 1964 e
il 1967. E' plausibile ritenere che ciò avverrà di nuovo tra il
2050 e il 2060. Resta il fatto che la prima descrizione scientifica di
Architeuthis dux risale al 1857, dopo centinaia di anni di miti e
leggende attorno al kraken. Ciò che Steenstrup non poteva sapere ai
tempi della pubblicazione del suo lavoro era il caos tassonomico che si sarebbe
sviluppato attorno al grande calamaro nei decenni a venire.
La suddivisione tradizionale (otto)
La gran parte degli esemplari oggetto
di studi sono resti poveramente conservati, quali resti rigurgitati
dai capodogli (Physeter macrocephalus Linnaeus, 1758) o estratti dallo stomaco di questi animali. Anche gli
esemplari spiaggiati, per quanto di capitale importanza per la
comprensione della fisiologia e della distribuzione di questo
animale, spesso sono incompleti e praticamente sempre in fasi più o
meno avanzate di decomposizione. Chiaramente questi
esemplari spesso galleggiano per giorni, se non settimane, in balia delle correnti fino
allo spiaggiamento, e nel frattempo parti del corpo si distaccano
naturalmente o sono soggetti dell'attacco di altri animali marini
(squali e Cetacea in primis). Inoltre, possono passare ore o giorni
prima di essere individuati sulle coste, e di conseguenza possono
subire anche l'azione meccanica delle onde contro il fondale e l'attacco di animali terrestri. Come se non bastasse, spesso sotto l'effetto degli
agenti atmosferici avviene l'indurimento del corpo e la contrazione
dei tentacoli post-mortem, alterando in modo sensibile la morfologia
del calamaro. Di conseguenza, praticamente tutti gli esemplari di
calamari giganti nelle collezioni sono più o meno putrefatti e più
o meno alterati, spesso in modo notevole. Se a questo si aggiunge la
notevole difficoltà di reperire materiale fresco (esemplari pescati
e congelati immediatamente) e di acquisire riprese (fotografiche o filmiche)
di esemplari vivi si può ben capire il caos generale che ha
trionfato per oltre un secolo nella tassonomia del genere
Architeuthis. Negli anni, infatti, sono state descritte sempre più specie di calamari giganti, che alla fine sono arrivate ad otto:
Architeuthis dux Steenstrup, 1857
Architeuthis hartingii Verrill, 1875
Architeuthis japonica Pfeffer, 1912
Architeuthis kirkii Robson, 1887
Architeuthis martensi (Hilgendorf,
1880)
Architeuthis physeteris (Joubin, 1900)
Architeuthis sanctipauli (Velain, 1877)
Architeuthis stockii (Kirk, 1882)
In realtà, a parte Architeuthis dux,
A. sanctipauli e A. martensi i resti ritrovati erano così
frammentari che la maggior parte degli specialisti era concorde
nell'esistenza di solo queste tre specie. Tuttavia, come è
comprensibile, tralasciando le specie descritte solo in base di resti
incompleti e, pertanto, di difficile attribuzione, anche le
diversità tra le tre specie descritte su esemplari spiaggiati erano
così scarse, o così enormi, da generare una confusione tassonomica
virulenta e totale. La domanda chiave era: quante sono le specie di
Architeuthis? Otto, tre o un'aurea mediocritas? O magari, come
sostenevano alcuni, una sola specie cosmopolita? Ora pare che la
genetica abbia confermato quest'ultima ipotesi.
L'analisi genetica (uno)
In uno studio pubblicato su “Procedings
of Royal Society B” (vedi bibliografia), sembra che l'arcano sia
stato finalmente svelato. L'analisi del DNA mitocondriale effettuato
su quarantatré campioni di tessuto provenienti da tutto il globo (e,
per ovvi motivi, prevalentemente da carcasse in decomposizione)
rivela non solo che esiste una sola specie, Architeuthis dux, ma che
addirittura presenta una scarsa variabilità genetica: in soldoni,
facendo i paragoni con altri undici animali marini pelagici (incluso il
calamaro di Humboldt, Dosidicus gigas D'Orbigny, 1835), l'unico altro
animale con una “peggiore” varibilità genetica risulta essere lo
squalo elefante (Cetorhinus maximus Gunnerus, 1765). Questo non
significa che tutti i calamari giganti del globo siano strettamente imparentati,
non più di quanto io sia strettamente imparentato con un altro europeo; tuttavia,
rimane un fattore molto singolare e spiegabile con il fatto che le
larve, viventi a differenza degli adulti a basse profondità,
vengono trascinate dalle correnti finché non raggiungono una certa
taglia; dopodiché, si inabissano e si spostano poco allo stadio
adulto, riproducendosi in loco. A loro volta, le larve così prodotte
salgono a profondità minori lungo la colonna d'acqua e vengono
trascinate via dalle correnti ed il ciclo si ripete a svariate decine
(se non centinaia o persino migliaia) di chilometri di distanza,
vanificando eventuali fenomeni di isolamento. Un'altra possibile
spiegazione è che Architeuthis dux sia una specie originatasi in
tempi molto recenti dopo aver attraversato un “collo di bottiglia
evolutivo” (ovverosia dopo che la popolazione progenitrice si è
ridotta ad uno scarso numero di esemplari, da cui si sono originati
tutti i calamari giganti odierni).
Tuttavia, è presto per cantare
vittoria. Se la tesi della specie singola è molto plausibile, ciò
non toglie che potrebbe rivelarsi scorretta. Infatti, gli esemplari
delle collezioni storiche spesso sono stati conservati in formaldeide
che, come è noto, distrugge le strutture genetiche rendendo
impossibile l'analisi del DNA, mitocondriale o meno. Pertanto se è
lecito ritenere che, sulla base dei campioni esaminati, esista una
sola specie cosmopolita di Architeuthis, magari nelle profondità
marine si celano esemplari di un'altra (altre?) specie di calamaro
gigante appartenente allo stesso genere. In effetti, l'affidarsi solo
ed esclusivamente alle tecniche di analisi genetica può rivelarsi un
boomerang. Chiariamoci, non voglio assolutamente invitare a diffidare
della validità di questi esami, anzi; tuttavia, come per la
statistica, si tratta di strumenti che forniscono i risultati in base
a ciò che viene fornito loro. Risultati certamente attendibili, ma
infatti la questione non è se questi siano veri o falsi; la
questione è se i dati di partenza fossero realmente omnicomprensivi e rappresentativi.
Magari in questo momento stanno marinando nella formaldeide di
qualche collezione museale pezzi di un Architeuthis di un'altra
specie, o magari no; solo il tempo e l'affinarsi dei mezzi di
rilevamento di questi organismi abissali potrà dissipare ogni
dubbio. E la questione se esista una sola, tre o otto specie di
Architeuthis è solo una di quelle che circondano questi animali, dato
che ce ne sono un'infinità che ancora non hanno ottenuto risposta. Per esempio, esiste un periodo
riproduttivo? Se sì, quale? Quante uova vengono prodotte, e quali
sono i tempi di schiusa? Come fanno a riconoscersi i partner nel buio
degli abissi? Sono realmente cannibali o si trattava di casi di
autofagia? Quando si sono originati? Quali sono le relazioni trofiche con gli
altri grandi Cephalopoda che intersecano il loro
areale (come Mesonychoteuthis hamiltoniRobson,
1925)? Compiono migrazioni orizzontali nella colonna d'acqua durante
la notte verso la superficie, come fanno molti altri organismi di
profondità? Qual'è l'aspettativa di vita media? Queste e molte
altre domande ancora oggi circondano questo elusivo abitante degli
abissi, a cui spero verrà data risposta nei decenni a venire.
BIBLIOGRAFIA
Bolstadt & O'Shea, “Gut contents of a giant squid Architeuthis
dux (Cephalopoda: Oegopsida) from New Zealand waters”, New Zealand
Journal of Zoology, volume 31, pag. 15-21, 2004
Winkemann
et. al., “Mitochondrial genome diversity and population structure
of the giant squid Architeuthis: genetics sheds new light on one of
the most enigmatic marine species”, Procedings of the Royal Society
B, 180(1759),
2013
Kubodera
& Mori, “First-ever observation of a live giant squid in the
wild”, Procedings of the Royal Society B, 272(1581),
2005
Aldrich,
F.A. & E.L. Brown, “The Giant Squid in Newfoundland.”, The
Newfoundland Quarterly
Vol. LXV No. 3. pag. 4–8, 1967
E' ben noto il problema della fossilizzazione di
organismi molto piccoli e privi (o quasi) di parti dure.
Questo genera non pochi grattacapi quando si vuole studiare la storia
evolutiva dei gruppi che presentano queste caratteristiche, dato che
le condizioni di fossilizzazione favorevoli sono poche e i giacimenti fossiliferi rari. Tuttavia, di
tanto in tanto queste condizioni si verificano e regalano alcuni degli esemplari più belli e dettagliati del mondo. Un esempio? Il
Carnico (Triassico superiore, tra circa 230 e 220 milioni di anni fa) di Cortina
d'Ampezzo.
In questa località è stato infatti
ritrovato uno dei giacimenti più antichi di ambra del mondo. Non
solo, in quei frammenti d'ambra sono stati rinvenuti i più antichi
acari del mondo. Triasacarus fedelei Lindquist e Grimaldi 2012e Ampezzoa triassica Lindquist e Grimaldi 2012 sono stati una delle scoperte più
clamorose dell'anno passato, e non solo perché sono molto piccoli
(circa un decimo di millimetro) ma, comunque sia, perfettamente conservati, o perché sono più antichi di
qualsiasi altro acaro mai ritrovato in precedenza, ma perché
dimostrano con la loro anatomia l'ancestralità delle caratteristiche tipiche degli Eriophyoidea (la superfamiglia di acari
a cui appartengono) moderni. E, indirettamente, anche che il loro
comportamento doveva essere simile a quello degli Eriophyoidea
moderni.
Questi animali presentano infatti soltanto due paia di zampe nella fase post-larvale e non possiedono un apparato respiratorio, esattamente come gli Eriophyoidea moderni. Anche il fatto che siano stati ritrovati nell'ambra non è un caso: gli acari appartenenti a questo gruppo sono infatti dei fitofagi e dei parassiti delle piante. Sebbene delle oltre 3600 specie che abitano il globo solo il 3% si nutra sulle conifere, il fatto che le Magnoliophyta(cioè le piante con fiore) non esistessero nel Carnico (sarebbero comparse solo nel Cretaceo inferiore) e che le specie con caratteristiche più primitive esistenti oggigiorno si cibino ancora di conifere porta ad escludere la presenza di improbabili piante con fiore del Triassico superiore.
La specie ad oggi più simile a questi esemplari è Cymeda zealandica Manson & Gerson, 1986 della Nuova Zelanda, che si nutre però sulle felci ad albero (Cyatheales).
L'Italia (non) è un Paese per fossili?
L'Italia apparentemente non è un Paese
per fossili, o almeno per fossili spettacolari: in fondo, il Mazon Creek, Burgess Shale, Chengjiang o la
fantastica Morrison Formation non hanno equivalenti italiani, anzi
sono unici al mondo. Tuttavia, non bisogna cedere all'illusione che
l'Italia sia un Paese povero di fossili, anche molto antichi. Certo,
forse non troveremo mai Sauropoda o Theropoda paragonabili ai
blasonati parenti d'oltreoceano (ma non ci scommetterei; come diceva
James Bond, “mai dire mai!”), e sicuramente abbiamo una maggiore
abbondanza di fossili del Cenozoico rispetto a quelli del Paleozoico
e del Mesozoico, ma ciò non toglie che ciò che troviamo
appartenente a questi tempi più remoti sia d'indubbio interesse e di
grande valore. Tariccoia arrusensis Hamman 1990, Ampezzoa triassica e Triasarcus
fedelei per quanto riguarda la parte artropodale della faccenda (per
quanto riguarda la parte dinosauriana, e non solo, gli entusiasmanti
risultati degli ultimi anni sono sotto gli occhi di tutti) sono tutti
esempi di quello che la ricerca paleontologica in questo Paese
continua a regalare; magari non saranno grandiosi o non
colpiranno l'immaginario collettivo come un Tyrannosaurus o un
Brachiosaurus ma sono per certi aspetti
anche più significativi, e accrescono continuamente la nostra
conoscenza della storia della vita.
Bibliografia
Schmidt et. al., "Arthropods in amber from the Triassic Period", PNAS, 2012
Manson & Gerson, "Eriophyoid mites associated with New Zealand ferns", New Zealand Journal of Zoology, vol. 13, pag. 120, 1986
Uno delle questioni più problematiche ed annose riguardo allo studio della filogenesi e dell'evoluzione degli Arthropoda (e non solo) è quella inerente le estinzioni di vari taxa. Molti gruppi di Arthropoda sono vissuti, hanno prosperato e si sono estinti in tempi remoti, me è certamente ben difficile rintracciare le cause della loro estinzione. Certamente, nel caso di estinzioni di massa si può addurre a queste la fine di determinati gruppi (anche se, spesso, è difficile trovare una causa univoca relativa all'estinzione stessa); ma cosa accade se un gruppo, prima di estinguersi, si riduce in complessità (come numero di famiglie o sottordini)? Quali sono le reali motivazioni? Non sono pochi i gruppi a cui è avvenuto questo, e spesso si possono solo fare parallelismi ed ipotesi; tuttavia, gli eventi di due grandi gruppi di Arthropoda, ben documentati e che perdurarono per molto tempo, colpiscono particolarmente l'immaginazione: sto parlando dei Chelicerata merostomati appartenenti al gruppo degli Eurypterida (i cosiddetti "scorpioni di mare") e dei Trilobita. Oggi, desidero concentrarmi solo sul primo gruppo.
Dall'Ordoviciano con furore
Gli Eurypterida sono uno dei due grandi gruppi dei Chelicerata (che comprende ragni e scorpioni attuali) appartenenti alla classe Merostomata: l'altro sono gli Xiphosura, cioè i limuli ancora oggi viventi. Gli Eurypterida condividono in linea di massima le seguenti caratteristiche: prosoma (la "testa") trapezoidale con sei paia appendici (di cui l'ultima spesso allargata a formare una pagaia), un pre-addome piatto piatto composto da sette segmenti ed un post-addome di cinque segmenti, che finisce in un telson (il "pungiglione"). Attorno alla bocca è presente una piastra a forma di U (l'endostoma).
Una visione dorso-ventrale di Baltoeurypterus tetragonophtalmus (Fischer, 1839) (da Clarkson , vedi bibliografia)
Questo gruppo di animali ha incluso forme estremamente diverse fra loro, vissuti praticamente in ogni ambiente, dato molte specie erano dulciacquicole e eurialine, ed è plausibile che certe specie avessero anche un regime anfibio. Ne sono esistiti di ogni forma e dimensioni: da pochi centimetri di lunghezza sino ai 2,5 metri di Jaekelopterus rhenaniae (Jaekel, 1914), l'Arthropoda più grande sinora scoperto. Si trattava per lo più di predatori, che plausibilmente usavano i potenti cheliceri o, in certi casi, il telson appuntito per predare animali più piccole, come i primitivi Vertrebrata che vivevano in quel tempo. Tuttavia, questo non bastò per preservarli dalla progressiva rarefazione e dalla scomparsa, avvenuta durante la grande estinzione di massa del Permiano-Triassico 250 milioni di anni fa.
Come muore un euripteride?
Come si può osservare dal grafico sottostante, i grandi eventi di estinzione degli Eurypterida coincidono sia con l'estinzione del Permiano-Triassico, sia con l'estinzione di massa del tardo Devoniano, probabilmente causata da un'era glaciale che persistette nella parte terminale di questo periodo. Un altro evento di estinzione di diversi gruppi coincide con il limite Siluriano-Devoniano, in cui avvenne un'altro grande fenomeno di estinzione.Tuttavia, balza subito all'occhio anche la paurosa rarefazione dei gruppi e le estinzioni avvenute non tanto in questi eventi, come ci potremmo aspettare, bensì la scomparsa di diverse famiglie tra questi eventi. La cosa risulta curiosa dato che, se si guarda bene, molte famiglie in realtà passarono indenni diversi fenomeni più devastanti (come l'estinzione di massa del limite Ordoviciano-Siluriano). Se a tutt'oggi è difficile formulare una soluzione univoca di questi fenomeni, è certo però che la grande rarefazione del Devoniano coincide con un altro fenomeno: l'affermarsi dei vertebrati con mascelle.
A ben vedere, infatti, contemporaneamente alla riduzione di taxa nel Devoniano si assiste ad un aumento del numero di taxa degli Gnathostomata, ed in particolare all'affermarsi dei "Placodermi" (in realtà da considerarsi un gruppo polifiletico), che si estinsero anch'essi nell'evento del tardo Devoniano.
Questi Vertebrata, infatti, presentano delle potenti mascelle e alle piastre gnatali, delle strutture ossee simili a denti, spesso molto ben sviluppate. Se si considera poi che certe specie, come Dunkleosteus terrelli (Newberry, 1873), raggiungevano gli 8 metri di lunghezza non è improbabile ritenere che potessero predare anche i grandi Eurypterida. Quanto questi fenomeni siano poi stati, all'atto pratico, incidenti sull'estinzione dei grandi Chelicerata è difficile da stabilirsi; tuttavia, il coincidere dell'affermarsi dei "Placodermi" con la rarefazione dei grandi "scorpioni di mare" (che poi non erano né scorpioni né, spesso, di mare) è quantomeno sospetto.
Bibliografia:
E. N. K Clarkson, "Invertebrate Paleontology and Evolution", Blackwell Publishing 1998
Braddy, Poschmann e Tetile, "Giant claw reveals the largest ever arthropod", Biol. Lett. 2008 4
Buon pomeriggio a tutti, miei lettori, e benvenuti nel mio blog! Questo è il primo messaggio di quello che, spero, sarà un blog di lunga durata.
Credo che la prima impressione relativa a questa pagina possa gettare nella confusione più totale chi, come me, è avvezzo ai formalismi: l'intestazione parla di Arthropoda (perfetto), l'immagine di sfondo è un fossile di limulo (Mesolimulus walchi (Demarest, 1822),per la precisione)con relativa traccia fossile (d'accordo), ma il link cita Dicranurus (un genere di trilobiti) e, come se non bastasse, la descrizione parla di tutto meno che di questo gruppo di animali. In realtà, le motivazioni per questa apparente confusione sono semplici e molteplici: io amo la paleontologia degli invertebrati, specie quella degli Arthropoda; il mio genere di Trilobita preferito (non ho remore ad ammetterlo, soprattutto per un fattore estetico) è Dicranurus (e, non mi vergogno ad ammetterlo, Limulus o Arthropoda non erano più disponibile tra i link ancora liberi di Blogger); infine, anche se voglio parlare soprattutto di Arthropoda (preferibilmente fossilizzati, ma non lo garantisco dati i precedenti), sarà ben difficile che parli solo di Arthropoda; anzi, dirò di più, probabilmente il primo post riguarderà altro.
Pertanto, miei lettori, non scandalizzatevi se non parlerò soltanto di paleontologia degli Arthropoda, o degli Arthropoda in generale, e neppure se a volte scriverò con termini non propriamente tecnici (e questo nonostante, e chi mi conosce lo sa bene, io sguazzi nei tecnicismi come un pesce, o il limulo di prima se volete, nel mare). Questo infatti, nonostante sia un blog che si occuperà di argomenti scientifici, non pretende una trattazione né esauriente né specialistica per ogni argomento; non c'è un comitato scientifico, per dirla tutta. Perciò, miei cari lettori, state comodi (e calmi) e seguitemi in questo viaggio nel mondo naturale.
Grazie per aver visitato questo blog ed essere riusciti a sopportare questo sproloquio, a presto per il primo post!
P.S.: ci tengo a precisare che questo blog è una proprietà intellettuale del sottoscritto. Le opinioni qui riportate sono solo ed esclusivamente mie, e me ne assumo la responsabilità. Non ho nulla in contrario se parti di questo blog vengono citate o comunque sia riportate, anzi, tuttavia dovete inserire dei link che rimandino all'articolo originale.